Il Noir Americano

REGIA: Abraham Polonsky

SOGGETTO: dal romanzo Tucker’s People di Ira Wolfert

SCENEGGIATURA: Ira Wolfert, Abraham Polonsky

FOTOGRAFIA: Georges Barnes

MUSICHE: David Raksin

PRODUZIONE: Enterprise Productions Inc.

INTERPRETI: John Garfield, Thomas Gomez, Marie Windsor

ORIGINE: USA DURATA: 79’

New York, immediato dopoguerra. L’avvocato Joe Morse (Garfield) fa il procuratore nelle lotterie clandestine. Alla vigilia del 4 luglio, giorno dell’indipendenza americana, si sta preparando una colossale truffa architettata dal boss Ben Tucker, socio in affari dell’avvocato Morse. L’avvocato si trova in grave difficoltà perché a farne le spese potrebbe essere suo fratello maggiore Leo (Gomez), proprietario di un piccolo banco per le scommesse.

Dopo aver scritto la sceneggiatura di un film sul mondo della boxe, Anima e corpo (1947) di Robert Rossen, Abraham Polonsky (1910-1999) esordì nella regia con Le forze del male, sempre prodotto dalla Enterprise di John Garfield che da pochi anni aveva fondato una propria casa di produzione. Basato sull’archetipo ebraico di Caino e Abele (Polonsky e Garfield erano entrambi ebrei di provenienza russa), Le forze del male è un noir “politico”, sugli intrecci fra legalità e malavita, sul cuore criminale del capitalismo americano. Benché esordiente, Polonsky dirige il film con mano sicura, scegliendo la strada del noir realistico con uno stile secco e un ritmo sempre incalzante. Esemplare la messa in scena, con scelte efficaci per ogni inquadratura: da notare le scenografie naturali dei grattacieli di Wall Street che incombono gigantesche sul protagonista. Le forze del male è inoltre un film emblematico del periodo della cosiddetta caccia alle streghe, cioè al comunista, condotta dal senatore McCarthy. Polonsky e Garfield, ne rimasero pesantemente coinvolti. Polonsky, comunista e sindacalista, nel 1951 fu costretto ad abbandonare per vent’anni il cinema. Per Garfield le conseguenze furono ancora più gravi.

L. Giribaldi

REGIA: Jacques Tourneur

SOGGETTO: dal romanzo Build My Gallows High di Daniel Mainwaring

SCENEGGIATURA: Daniel Mainwaring

FOTOGRAFIA: Nicholas Musuraca

MUSICHE: Roy Webb

PRODUZIONE: RKO

INTERPRETI: Robert Mitchum, Jane Greer, Kirk Douglas

ORIGINE: USA DURATA: 97’

Jeff Bailey (Mitchum) è un ex detective privato che si è ritirato in provincia, a Bridgeport, dove gestisce una stazione di servizio. Ha una fidanzata del paese e si divide fra l’officina e il fiume dove va a pescare insieme al suo aiutante sordomuto. Ma le ombre del passato tornano a visitarlo sotto forma dello scagnozzo del boss Nick Sterling (Douglas), che dopo tre anni vuole incontrarlo per fargli una proposta. Così Jeff si accorge che non è per niente fuori dal passato (out of the past)…

Tratto da un romanzo di Daniel Mainwaring, futuro autore della sceneggiatura del fondamentale L’invasione degli ultracorpi, Le catene della colpa è uno dei noir di culto degli anni Quaranta, contiene tutti gli elementi classici del genere: il detective privato, la dark-lady, il passato minaccioso, la narrazione a flash-back di una storia intricatissima, la fotografia in chiaro-scuro. Ma diverse cose indicano che il tempo sta passando: l’eroe di qualche tempo prima, il detective, si è ritirato, ha cambiato vita e mestiere, rispetto ai polizieschi dei prima anni quaranta non tutto il film è girato in studio e ci sono molti esterni. Ma anche in provincia la vita non è così idilliaca come sembra… e su tutto il film grava un senso di malinconia e sconfitta.

Per la parte artistico-tecnica si ricostituisce il tandem della RKO low-budget (Il bacio della pantera) composta dal regista Tourner e dal geniale direttore della fotografia, l’italo-americano Nicholas Musuraca. Splendido il cast, con il sornione Robert Mitchum, la bellissima Jane Greer e Kirk Douglas, nuovo duro dello schermo, qui nella sua terza interpretazione in carriera.

L. Giribaldi

REGIA: Orson Welles

SOGGETTO: dal romanzo If I Die Before I Wake di Sherwood King

SCENEGGIATURA: Orson Welles

FOTOGRAFIA: Charles Lawton Jr.

MUSICA: Heinz Roemheld

PRODUZIONE: Columbia Pictures

INTERPRETI: Orson Welles, Rita Hayworth, Everett Sloane

ORIGINE: USA DURATA: 86’

Il marinaio Michael O’Hara (Welles) salva Elsa (Hayworth) da un’aggressione in un parco di New York. Successivamente O’Hara viene ingaggiato dall’avvocato Bannister (Sloane), marito di Elsa, perché faccia parte dell’equipaggio dello yacht che deve condurli a S.Francisco attraverso il canale di Panama.

Dopo i fallimenti commerciali di Quarto potere (1941) e L’orgoglio degli Amberson (1942) e poco dopo aver diretto il thriller minore Lo straniero (1946), Welles si era rituffato nel teatro con un ambizioso allestimento del Giro del mondo in 80 giorni. Racconta la leggenda, cioè Welles stesso, che alla vigilia del debutto in teatro non potevano ritirare i costumi perché la produzione aveva un debito di 50 mila dollari. Orson chiamò allora Harry Cohn della Columbia promettendogli un grande film se entro 24 ore gli avesse spedito i 50 mila dollari che gli servivano. Alla richiesta del produttore su quale film avrebbe fatto, Welles afferrò un romanzetto che aveva a portata di mano e improvvisò una trama poliziesca. Cohn spedì i soldi e nacque La signora di Shanghai. Concepito inizialmente per un’altra attrice, il ruolo della protagonista femminile venne offerto poi a Rita Hayworth, sposata con Welles, anche se ormai erano separati da due anni. La signora di Shanghai è celeberrimo per il cambio di look imposto da Welles alla Hayworth e che incorse nelle ire della Columbia che voleva replicare il successo stratosferico di Gilda.

Il film fu tolto di mano a Welles alla fine delle riprese, alcune scene furono eliminate o drasticamente ridotte, ne furono girate di nuove e stabilito un montaggio diverso da quello preparato dall’ex “genietto” di Hollywood. Nonostante questo sopravvive un noir prezioso e maledetto, una vicenda contorta piena di flash-back dove un gruppo di avventurieri sono disposti a tutto per il denaro (“come squali che sentono l’odore del sangue”) ed alcune scene veramente memorabili: l’incontro nell’acquario, il teatro cinese, la sala degli specchi al luna-park.

L. Giribaldi

REGIA: Charles Vidor
SOGGETTO: dal racconto omonimo di E. A. Ellington
SCENEGGIATURA: Jo Eisinger, Marion Parsonnet
FOTOGRAFIA: Rudolph Maté
PRODUZIONE: Columbia Pictures
INTERPRETI: Rita Hayworth, Glenn Ford, George Macready
ORIGINE: USA DURATA: 110’

A Buenos Aires il baro Johnny Farrel (Ford) viene salvato da una brutta situazione da Ballin Mundson (Macready), proprietario di una bisca clandestina. In seguito Mundson assume Johnny nel suo locale e in breve tempo ne diviene l’uomo di fiducia. Mundson si assenta per un po’ di tempo e al suo ritorno presenta a Johnny quella che è diventata sua moglie, cioè lei: Gilda (Hayworth)…
Film di culto, Gilda è un altro esempio di film che non risalta per la mano riconoscibile di un autore-regista (in questo caso
l’americanizzato Charles Vidor, il quale era nato a Budapest nel 1900 e il cui vero nome era Karoly Vidor), ma per una abile e fortunata alchimia di componenti produttive e artistiche. Il personaggio e la sua interprete Rita Hayworth vennero ben presto identificati nell’immaginario collettivo mondiale del dopoguerra come simboli di una sessualità nuova e disinibita.

Ma nel 1946 Gilda rappresenta anche una somma degli elementi del noir, con una tendenza già allo stereotipo: la voce fuori campo del protagonista maschile, il passato che ritorna, le vicende stilizzate, la darklady.
Dark-lady che, con le sembianze erotiche di Rita Hayworth costruite con spietata determinazione dalla Hollywood dell’epoca, incarna un vero e proprio simbolo dello sguardo maschile nei confronti della donna. Non è un caso che la Hayworth, oggetto di gelosia morbosa da parte del patron della Columbia Harry Cohn, fu la causa di notevoli problemi sul set del film fra il produttore, il regista e lo stesso Glenn Ford. Ed oggi Put the Blame on Mame cantata da Rita Hayworth, il guanto di Gilda (che allude ad uno spogliarello completo) fanno parte di una stagione irripetibile del cinema, quando si è costruito il suo mito immortale.

L. Giribaldi

REGIA: Tay Garnett

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di James M. Cain

SCENEGGIATURA: Niven Busch, Harry Ruskin

FOTOGRAFIA: Sidney Wagner

PRODUZIONE: Metro Goldwyn Mayer

INTERPRETI: Lana Turner, John Garfield, Cecil Kellaway

ORIGINE: USA DURATA: 113’

Frank (Garfield), un vagabondo che non ha mai messo radici da nessuna parte, arriva alla locanda Twin Oaks, situata ai margini di una strada di provincia. Nick (Kellaway), il proprietario del ristorante, gli offre un lavoro come aiutante e uno dei motivi, forse il principale, per cui Frank accetta si chiama Cora (Turner), la giovane avvenente moglie del più anziano locandiere.
Il postino suona sempre due volte è uno dei titoli più emblematici dell’era del noir. Quanto fosse dirompente la storia scritta da James M. Cain lo dimostra il fatto che questa versione filmica del suo romanzo (1934) arrivò terza in ordine cronologico. La prima fu infatti girata in Francia: Le dernier tournant (1939) di Pierre Chenal, seguita dal capolavoro Ossessione (1943) di Luchino Visconti.

A metà anni Quaranta, quando il rigido Codice Hays aveva allentato un po’ le sue briglie, si poté girare finalmente anche la versione americana prodotta dalla Metro Goldwyn Mayer, la più paludata delle grandi major di Hollywood. Il postino suona sempre due volte non è infatti un film d’autore (Tay Garnett era solo un
ottimo mestierante, attivo fin dai tempi del muto e questo è probabilmente il suo titolo più famoso), ma la potenza scabrosa della storia scritta da Cain, il fascino nero dei protagonisti, annullano il velo glamour con cui la MGM tentava di attenuare il potenziale eversivo della vicenda. Come due anni prima con La fiamma del peccato, sempre tratto da Cain, la violenza scandalosa dell’adulterio e dell’omicidio scava nel cuore nero del sogno americano. E la coppia Turner-Garfield, sensualità provinciale e volgare ma a tratti quasi struggente, si staglia per sempre nel mito del cinema di tutti i tempi.

L. Giribaldi

REGIA: Edgar G. Ulmer

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di Martin Goldsmith

SCENEGGIATURA: Martin Goldsmith

FOTOGRAFIA: Benjamin H. Kline

PRODUZIONE: PRC Pictures

INTERPRETI: Tom Neal, Ann Savage, Claudia Drake, Edmund MacDonald

ORIGINE: USA 1945 DURATA: 67’

Un pianista squattrinato di New York (Neal) decide di seguire la cantante del locale e sua fidanzata (Drake) che se n’è andata ad Hollywood in cerca di fortuna. Non avendo soldi l’unico mezzo per attraversare gli Stati Uniti è fare l’autostop…
Edgar G. Ulmer (1904-1972) era nato ad Olomouc, città dell’odierna Repubblica Ceca, all’epoca sotto l’impero Austro-Ungarico. Gli inizi della carriera di Ulmer sono avvolti nel mistero e nella leggenda. Iniziò facendo teatro a Vienna e più tardi rivendicò la sua partecipazione ai film dell’Espressionismo tedesco, ma ad esempio Fritz Lang negò di aver mai collaborato con lui.

È certa invece la collaborazione di Ulmer ai film americani di Murnau, Aurora e Tabù e la co-regia insieme a Siodmak di Uomini di domenica (1931). Ulmer diventò poi ad Hollywood, per necessità e scelta, il più famoso esponente del cinema di serie B e Detour è il suo capolavoro. Tratto dal romanzo omonimo, prodotto dalla Producers Releasing Corporation, specializzata nelle produzioni di B-movies, Detour è un film leggendario perché fu girato in soli sei giorni, con un budget irrisorio, (anche se in seguito questi dati furono rivisti un po’ verso l’alto), attori sconosciuti, pochissimi interni, molte riprese con il trasparente e sfondi di repertorio. Eppure ha la potenza di un noir segnato dagli eventi imperscrutabili del destino, raccontato dalla voce off di un protagonista alla deriva nelle strade oscure dell’America.

È infatti anche un film on the road, la cui fama è cresciuta nel tempo, ammirato successivamente da Scorsese, dai critici della Nouvelle Vague, da Bogdanovich che così scrisse: «Nessuno ha mai fatto buoni film in meno tempo e con meno denaro di Ulmer».

L. Giribaldi

REGIA: Robert Siodmak

SOGGETTO: dal romanzo Some Must Watch di Ethel Lina White

SCENEGGIATURA: Mel Dinelli

FOTOGRAFIA: Nicholas Musuraca

MUSICHE: Roy Webb

PRODUZIONE: Rko

INTERPRETI: Dorothy McGuire, George Brent, Ethel Barrymore, Kent Smith

ORIGINE: USA; DURATA: 83’

  1. In una cittadina del New England un misterioso assassino si accanisce su giovane ragazze disabili. Dopo il terzo delitto la giovane Ellen (McGuire), muta a causa di uno shock, viene riaccompagnata dal dott. Perry (Smith) alla villa dove lavora.
    Robert Siodmak (1900-1973) aveva esordito in Germania nel 1930 con il leggendario Uomini di domenica, co-diretto con Edgar G. Ulmer e al quale avevano collaborato altri due futuri grandi registi come Billy Wilder e Fred Zinnemann. Siodmak, che come Fritz Lang aveva lasciato la Germania all’avvento del nazismo, era approdato ad Hollywood, via Parigi, nel 1940.
    Celeberrimo film del terrore, La scala a chiocciola si inserisce nel genere noir, filone gotico e woman in distress (fanciulla in pericolo), similmente a Rebecca di Hitchcock e, in parte, Vertigine di Preminger. Per accrescere la tensione nel film la protagonista era stata resa muta, caratteristica non presente nel romanzo. Memore dell’espressionismo, con la complicità del geniale direttore della fotografia Nicholas Musuraca, Siodmak riempie il film di suspense e di ombre, di atmosfere e riprese ad effetto. Il terrorizzante (per un paio di generazioni) occhio dell’assassino che vede le sue vittime in una visione allucinata e deformata è probabilmente l’occhio dello stesso Siodmak. La scala a chiocciola è quindi, come molti noir, anche una riflessione sulla visione cinematografica, sulla capacità del cinema di creare una dimensione esclusiva e parallela alla realtà, al confine del sogno ad occhi aperti (in questo caso dell’incubo).

L. Giribaldi

REGIA: Otto Preminger

SOGGETTO: dal romanzo Laura di Vera Caspary

SCENEGGIATURA: Jay Dratler, Samuel Hoffenstein, Elizabeth Reinhard

FOTOGRAFIA: Joseph La Shelle

MUSICHE: David Raksin

PRODUZIONE: 20th Century Fox

INTERPRETI: Gene Tierney, Dana Andrews, Clifton Webb, Vincent Price

ORIGINE: USA 1944 DURATA: 85’

Laura Hunt (Tierney), una giovane direttrice pubblicitaria, è stata trovata uccisa nel proprio appartamento, con il volto
sfigurato da un colpo di fucile. Dell’indagine è incaricato l’ispettore di polizia McPherson (Andrews).

Otto Preminger, nato nel 1905 nell’odierna Ucraina, appartenente all’epoca all’Impero Austro-Ungarico, è un altro dei registi europei di lingua e cultura tedesca che hanno reso grande Hollywood. La vicenda produttiva di Vertigine fu una vera battaglia: in un primo tempo la Fox aveva affidato la regia a Preminger, il primo a scoprire la storia scritta da Vera Caspary, ma dopo alcuni aspri litigi con il produttore Zanuck, era stato retrocesso a direttore di produzione, mentre a dirigere il film era stato chiamato Mamoulian. Ma Zanuck, insoddisfatto delle prime riprese effettuate dal regista di origini georgiane, richiamò rapidamente Preminger, il quale cambiò diverse cose, compreso il quadro che rappresenta la protagonista, centrale nella vicenda del film. Vertigine è uno dei noir di gran classe degli anni Quaranta, con una vicenda conturbante e veramente “vertiginosa”, costellata di flash-back, di false piste e visioni, di una realtà che cambia
continuamente.

Con al centro dell’intreccio una donna contesa fra tre uomini, il cui fascino è raddoppiato dal suo enigmatico ritratto. La regia di Preminger è di una raffinatezza e precisione (la perfezione delle inquadrature e della recitazione, i tempi perfetti) che sbalordisce ancora oggi. Curiosamente nello stesso anno, il 1944, uscì un altro film con al centro un ritratto femminile, La donna del ritratto di Fritz Lang.

L. Giribaldi

REGIA: Howard Hawks

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di Raymond Chandler

SCENEGGIATURA: William Faulkner, Leigh Brackett, Jules Furthman

FOTOGRAFIA: Sid Hickox

MUSICHE: Max Steiner

PRODUZIONE: Warner Bros.

INTERPRETI: Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Martha Vickers

ORIGINE: USA 1946 DURATA: 110’

Philip Marlowe (Bogart) è incaricato dal vecchio generale Sternwood di scoprire da chi è ricattata la giovane scatenata
figlia (Vickers). Ma anche l’altra figlia del generale (Bacall) ha numerosi scheletri nell’armadio e come al solito nelle trame
chandleriane la matassa sarà molto complicata da sbrogliare.
Howard Hawks(1896-1977), uno dei grandi di Hollywood, della stessa generazione e tempra di Ford e Walsh, aveva iniziato a fare cinema durante il muto. Così dentro al sistema hollywoodiano da eccellere in tutti i generi: commedia (es. Ventesimo secolo, Susanna), avventura (es. Acque del sud), western (es. Il fiume rosso, Un dollaro d’onore). Dopo Scarface dei primi anni ’30, Hawks torna anche al genere criminale con Il grande sonno, suo unico noir, ma in assoluto uno dei film più importanti degli anni ’40.

Tratto dal primo romanzo di Chandler, Il grande sonno si caratterizza per una trama così ingarbugliata che, racconta la leggenda, neppure lo stesso scrittore sapeva spiegare ogni passaggio. Si tratta di un noir atipico che non fa parte del filone visionario (niente flashback, niente virtuosismi di fotografia, niente voce off) e che rispecchia il credo di Hawks: “Cerco di raccontare la storia nel modo più semplice possibile, con la macchina da presa al livello dell’occhio. Mi immagino come la storia dovrebbe essere raccontata e la giro.”

Con Bogart, Marlowe entra nel mito e l’incontro con Lauren Bacall dà scintille, proseguendo il classico hawskiano della “guerra dei sessi”, assente nel romanzo. Il grande sonno è un esempio mirabile di classico hollywoodiano: con un ritmo sempre incalzante compie una sintesi perfetta fra regia e storia.

REGIA: Edward Dmytryk

SOGGETTO: dal romanzo Murder, My Sweet di Raymond Chandler

SCENEGGIATURA: John Paxton

FOTOGRAFIA: Harry J. Wild

PRODUZIONE: Rko

INTERPRETI: Dick Powell, Claire Trevor, Anne Shirley, Mike Mazurki

ORIGINE: USA 1944 DURATA: 95’

Il detective Philip Marlowe (Powell), con gli occhi completamente bendati a causa di una ferita da arma da fuoco, è accusato di omicidio dalla polizia. Messo sotto torchio racconta una complicata vicenda al cui inizio era stato contattato da un certo Moose Malloy (Mazurki), un ex galeotto alla ricerca della donna di cui era innamorato alcuni anni prima di essere incarcerato.
Prima apparizione cinematografica del detective Philip Marlowe, creatura dello scrittore Raymond Chandler, nella sua seconda avventura letteraria (la prima era stata Il grande sonno).
La sceneggiatura de L’ombra del passato presenta diversi cambiamenti rispetto al romanzo, a cominciare dal folgorante
inizio nel quale il detective risulta privo della vista, in una menomazione fisica ma soprattutto simbolica. E dopo pochi minuti parte la complessa vicenda in un flash-back lunghissimo che va ad occupare quasi tutto il film, flash-back completamente assente nel libro di Chandler, nel quale la storia si svolge in modo lineare.

Il regista Edward Dmytryk sceglie una messa in scena “espressionista” con tagli di luce forti e contrastati, inquadrature dove prevale spesso il nero, mentre l’interrogatorio poliziesco che subisce Marlowe sembra prefigurare la vicenda
personale dello stesso regista. Infatti Dmytryk fu ripetutamente interrogato dalla Commissione per le attività anti-americane, finché finì nella Lista nera dei “Dieci di Hollywood”. L’ombra del passato è perciò uno dei noir più affascinanti e significativi degli anni Quaranta: vero rappresentante dell’età dell’incubo americano, le cui ombre inquietanti si allungano dal periodo cupo della guerra a quello angosciante del dopoguerra.

L. Giribaldi

REGIA: John Huston

SOGGETTO: dal romanzo The Maltese Falcon di Dashiell Hammett

SCENEGGIATURA: John Huston

FOTOGRAFIA: Arthur Edeson

PRODUZIONE: Warner Bros.

INTERPRETI: Humphrey Bogart, Mary Astor, Peter Lorre, Sidney
Greenstreet, Elisha Cook Jr.

ORIGINE: USA 1941 DURATA: 101’

Una ragazza, Ruth Wonderly (Astor), si reca nell’ufficio del detective Sam Spade (Bogart) per incaricarlo del ritrovamento di sua sorella, misteriosamente scomparsa. Del caso si incaricherà il socio di Spade e la vicenda si rivelerà molto più complicata di quello che sembrava.
Film di esordio di John Huston, che nel corso degli anni ’30 e primi ’40 si era costruito una solida carriera di sceneggiatore, Il mistero del falco è in realtà il terzo adattamento dal romanzo di Dashiell Hammett del 1930. Huston restò molto fedele al romanzo di Hammett ma la sua è la versione rimasta nella storia perché si tratta del film che dà inizio ufficialmente all’era del noir, alle indagini dei poliziotti privati creati dalla scuola letteraria dell’hard-boiled, proponendo un’estetica che sarà poi adottata largamente dai film successivi.

Pur potendo contare su un basso budget, quasi di serie B, Huston, sulla scia di Quarto potere di Welles uscito pochi mesi prima, aiutato dal veterano direttore della fotografia Edeson, inquadra le scene con tagli obliqui, mostrando i soffitti delle stanze e creando angoscia e senso di soffocamento. Il film lanciò definitivamente anche la stella di Bogart (la produzione inizialmente voleva George Raft, in quel periodo uno dei divi della Warner) che diventerà il prototipo dei detective privati e soprattutto uno dei volti indimenticabili del cinema americano. Inoltre, la novità ed il fascino del Mistero del falco si devono all’apparizione della figura della dark-lady, quasi imprescindibile per il genere noir e dei minacciosi eccentrici comprimari (Greenstreet, Lorre, Cook Jr.).

L. Giribaldi

REGIA: Raoul Walsh

SOGGETTO: dal romanzo High Sierra di W. R. Burnett

SCENEGGIATURA: W. R. Burnett, John Huston

FOTOGRAFIA: Tony Gaudio

PRODUZIONE: Warner Bros.

INTERPRETI: Humphrey Bogart, Ida Lupino, Alan Curtis

ORIGINE: USA 1941 DURATA: 96’

Il rapinatore Roy “Mad Dog” Earle (Bogart) viene scarcerato dopo aver ricevuto un’improvvisa grazia. Un boss ha comprato il suo perdono giudiziario e il vero motivo per cui è stato fatto uscire di galera è che deve organizzare una grossa rapina. Della banda farà parte anche una ragazza (Ida Lupino). Raoul Walsh (1887-1980), il regista di Una pallottola per Roy, era uno dei veterani di Hollywood. Aveva iniziato come aiuto di Griffith (anche come attore: nel film La nascita di una nazione interpreta l’assassino di Lincoln) e da lui diceva di aver imparato tutto. Dopo una grande carriera nel cinema muto, Walsh passò al sonoro senza nessun contraccolpo. Era un regista eclettico, ma l’azione per lui era il primo comandamento del cinema: “Azione, azione azione, questo il tema dei primi film e di quelli che hanno successo oggi. Fate che lo schermo sia occupato senza sosta da avvenimenti. Cose secondo logica, in una logica successione. Questa è sempre stata la mia regola.” Una pallottola per Roy si pone come anello di congiunzione fra i film di gangster molto in voga negli anni ’30 e il genere noir che esploderà negli anni ’40. Infatti se l’ambientazione è molto realistica – tutto il finale, e non solo, è girato in ambienti reali – i personaggi sono già da film noir. In particolare, il gangster interpretato da
Bogart nel ruolo che gli farà decollare la carriera, ha tutte le caratteristiche di un eroe noir: un duro introverso, di poche
parole ma con un suo codice d’onore, un bandito implacabile con slanci improvvisi di generosità. L’adesione psicologica di Bogart al personaggio è eccezionale, tanto che Huston, qui sceneggiatore, gli offrirà a breve il ruolo di Sam Spade nel Mistero del falco.

L. Giribaldi


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