Associazione Tourbillon APS

Fritz Lang in America 2° parte

Fritz Lang, nato a Vienna il 5 dicembre 1890, è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico austriaco-americano. Dopo aver lavorato in Germania, Lang emigrò negli Stati Uniti per sfuggire al regime nazista, diventando cittadino naturalizzato nel 1939¹. È celebre per essere stato uno dei maggiori esponenti dell’espressionismo tedesco e per aver influenzato profondamente il cinema americano, in particolare il genere noir.

La sua fuga dalla Germania nazista è avvenuta in circostanze drammatiche. Dopo un incontro con Joseph Goebbels, durante il quale gli fu offerto il controllo della produzione cinematografica nazista, Lang decise di lasciare il paese la stessa notte, senza mai farvi ritorno. In America, ha diretto film di grande successo come “Fury” (1936), “You Only Live Once” (1937), “Hangmen Also Die!” (1943), “The Woman in the Window” (1944), “Scarlet Street” (1945) e “The Big Heat” (1953).

La sua opera ha lasciato un’impronta indelebile nel cinema, portando con sé le tecniche e lo stile dell’espressionismo tedesco, che hanno contribuito a definire il linguaggio visivo del film noir americano. Lang è ricordato come un “Maestro dell’Oscurità”, un titolo che riflette la sua abilità nel rappresentare la complessità psicologica e la tensione morale attraverso l’uso di luci e ombre.

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal racconto Gunsight Whitman di Silvia Richards

SCENEGGIATURA: Daniel Taradash

FOTOGRAFIA: Hal Mohr

MUSICA: Emil Newman, Ken Darby

PRODUZIONE: Fidelity Pictures Corporation

INTERPRETI: Marlene Dietrich, Arthur Kennedy, Mel Ferrer

ORIGINE: USA 1952 DURATA: 89’

Vern Haskell (Kennedy) vuole vendicare la fidanzata che è stata stuprata e uccisa da due banditi nel corso di una rapina. Sulle tracce degli assassini, la sua ricerca lo porta in un rifugio per fuorilegge, il ranch Chuck-a-Luck gestito dalla leggendaria Altar (Dietrich), un’affascinante ex ballerina.

Due star del cinema tedesco (Lang e Dietrich) si incontrano per la prima e unica volta della loro carriera in un…western americano. Ma, come racconta lo stesso Lang, non fu una passeggiata: “Il film fu concepito per Marlene Dietrich. Mi piaceva moltissimo. Volevo scrivere un film su una ballerina di una certa età (ma era ancora molto desiderabile) e un vecchio pistolero che non è più in gamba come una volta. Così inventai questa storia. Marlene non sopportò l’idea di interpretare con disinvoltura un ruolo che la invecchiasse: se pure lievemente, ringiovaniva ogni giorno di più finché alla fine non ci più speranza di farla rientrare nel personaggio.” Nonostante gli screzi con la Dietrich (alla fine del film i due non si parlavano più), dei tre western girati da Lang Rancho Notorious è il più interessante, una ballata sintetica e romantica dove ritroviamo i classici temi langhiani della violenza, del bene e del male, della vendetta, della società dei fuorilegge, innervati dal senso acuto del passare del tempo. Girato quasi integralmente in studio, a basso budget, Rancho Notorious passa anche alla storia per la canzone The Legend of Chuck-a-Luck (che doveva dare il titolo al film), che è la prima ad essere creata appositamente per un western, anticipando di qualche mese la celebre canzone di Mezzogiorno di fuoco.

L. Giribaldi

Locandina del film "La confessione della signora Doyle"

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal dramma Clash by Night di Clifford Odets

SCENEGGIATURA: Alfred Hayes

FOTOGRAFIA: Nicholas Musuraca

MUSICA: Roy Webb

PRODUZIONE: RKO

INTERPRETI: Barbara Stanwyck, Robert Ryan, Paul Douglas, Marilyn Monroe

ORIGINE: USA 1952 DURATA: 105’

Mae Doyle (Stanwick) dopo dieci anni e una serie di fallimenti personali torna nella sua città, Monterey. Qui incontra Jerry (Douglas), un bravuomo di origini siciliane, proprietario di una barca da pesca. Contro tutte le evidenze e le sue stesse previsioni Mae accetta di sposarlo ed i guai, con le fattezze di un rude proiezionista (Ryan), sono dietro l’angolo.

Dopo il triangolo di Rancho Notorious, anche la storia de La confessione della signora Doyle, melodramma-noir tratto da un dramma teatrale, è basata su un triangolo sentimentale. Così racconta lo stesso Fritz Lang: “Ricevetti l’incarico di girarlo da Jerry Wald, una persona magnifica, veramente votato a fare del cinema; fu un grande piacere lavorare per lui. Anche Barbara Stanwyck – che ammiro moltissimo come attrice e che si comportò come un angelo – voleva me. Mi piaceva il dramma. Mi piaceva Odets (…).

Fu la prima volta che riuscii a convincere un produttore che dovevamo fare delle prove, come si fa in teatro. Poiché il dramma riguardava sostanzialmente tre persone, si potevano, in un certo senso, provare le scene principali. Avevo con me il mio bravissimo operatore Nicholas Musuraca e segnavamo le posizioni esatte della macchina da presa, i suoi movimenti e così via. Fu magnifico lavorare con tutti e tre: Barbara Stanwyck, Bob Ryan e Paul Douglas. Ma non fu facile lavorare con Marilyn Monroe; questo era praticamente il suo primo film importante. Marilyn era una miscela molto speciale di timidezza, incertezza e… sapeva perfettamente che effetto faceva sugli uomini…”

L. Giribaldi

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal racconto The Gardenia di Vera Caspary

SCENEGGIATURA: Charles Hoffman

FOTOGRAFIA: Nicholas Musuraca

MUSICA: Raoul Kraushaar

PRODUZIONE: Warner Bros

INTERPRETI: Anne Baxter, Richard Conte, Ann Sothern, Raymond Burr

ORIGINE: USA 1953 DURATA: 90’

Norah (Baxter), una giovane telefonista, appena lasciata dal fidanzato, soldato nella guerra di Corea, viene invitata a cena da Harry (Burr), un volgare donnaiolo. L’uomo tenta di violentarla nel suo appartamento ma la ragazza, ubriaca, dopo essersi difesa alla meglio, riesce a fuggire. Il giorno dopo Harry viene ritrovato morto e Norah si trova ad essere la prima sospettata dell’omicidio.

Ancora una volta Lang accenna e allude invece di mostrare ciò che avviene all’interno dell’appartamento, lasciando lo spettatore sospeso nella suspense fino alla fine.

Girato in sole tre settimane, Gardenia blu segna il ritorno al cinema di Fritz Lang dopo un anno di inattività (era stato inserito a sua insaputa nella lista nera di Hollywood, in quanto “potenziale comunista”). Quello che doveva essere solo un piccolo film commerciale e di passaggio, nelle mani di un Lang amareggiato e arrabbiato, diventa un ritratto corrosivo della società americana, come saranno tutti i noir successivi del regista tedesco.

Gardenia blu, nel quale uno dei temi è l’influenza dei mass media nei comportamenti sociali, diventa anche il primo film della cosiddetta “newpaper’s trilogy”: seguiranno Mentre la città dorme (1956) e L’alibi era perfetto (1956).

Nel libro di Peter Bogdanovich, il commento di Lang a Gardenia blu è uno dei più laconici di tutta l’intervista.P.B.: Questo film è un ritratto particolarmente velenoso della vita americana. F.L.: A questo proposito posso solo dirle che fu il primo film dopo l’affare McCarthy, e fui costretto a girarlo in venti giorni. Forse fu questo che mi rese così velenoso. (Risate)”

L. Giribaldi

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di William P. McGivern

SCENEGGIATURA: Sydney Boehm

FOTOGRAFIA: Charles Lang

MUSICA: Henry Vars

PRODUZIONE: Columbia Pict.

INTERPRETI: Glenn Ford, Gloria Grahame, Alexander Scourby

ORIGINE: USA; DURATA: 90’

Il capo dell’Archivio criminale della polizia si suicida e sua moglie, appena scoperto il fatto, avverte il boss della città (Scourby), facendo scomparire la lettera scritta dal marito prima di morire. Delle indagini si occupa il sergente Bannion (Ford), il quale scopre ben presto una fitta rete di connivenze fra la politica, la criminalità organizzata e la stessa polizia.

Verso la fine degli anni ’40 il cinema noir diventa più duro e violento, offrendo uno spaccato realistico della società americana. Si riconosce facilmente in questa tendenza anche Lang che personalmente aveva sempre perseguito l’idea di un cinema realistico, nel quale ogni film fosse anche “un documentario sul presente” (vedi ad es. M il mostro di Dusseldorf e Furia).

Il grande caldo fa parte perfettamente di questa tendenza, rispecchiando inoltre le tensioni sviluppate nella società americana dalla caccia alle streghe maccartista. Il grande caldo è così uno dei film più violenti di Lang, ma sempre con gusto e tatto: Lang mostra il risultato della violenza, non i suoi effetti truculenti! (che lezione per il cinema contemporaneo). Lang teneva molto all’identificazione del pubblico nel suo protagonista: “Il personaggio di Ford è bravo nel suo lavoro, qualche volta perde le staffe quando le cose non vanno per il verso giusto (…) Ama sua moglie. Lei viene fatta a pezzi da una bomba e così inizia la guerra privata di Ford, la sua vendetta personale. Credo che questo aspetto, inconsciamente, sia presente in tutti i miei film: odio, assassinio e vendetta, la lotta contro il destino. E la vendetta è un frutto amaro e cattivo.”

L. Giribaldi

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal romanzo La bestia umana di Emile Zola

SCENEGGIATURA: Alfred Hayes

FOTOGRAFIA: Burnett Guffey

MUSICA: Daniele Amfitheatrof

PRODUZIONE: Jerry Wald per Columbia Pict.

INTERPRETI: Glenn Ford, Gloria Grahame, Broderick Crawford

ORIGINE: USA 1954; DURATA: 90’

Jeff Warren (Ford), reduce dalla guerra di Corea, riprende il suo lavoro di macchinista dopo tre anni. Il suo collega Carl Buckley (Crawford), dirigente delle ferrovie, viene licenziato a causa di un litigio con il suo capo. Per farsi riassumere l’uomo chiede alla moglie Vickie (Grahame) di intercedere presso un alto funzionario di sua vecchia conoscenza. Quando però Carl scopre la natura della prestazione della moglie in cambio del favore concesso, organizza un piano mortale.

Dopo La strada scarlatta del 1944, Fritz Lang con La bestia umana gira il secondo remake da un film di Renoir, ma con notevoli differenze. Racconta Lang: “Al produttore Jerry Wald piaceva molto il film di Renoir, L’angelo del male. Il protagonista era Jean Gabin nella parte di un maniaco sessuale: poteva fare l’amore con una donna solo uccidendola. Naturalmente in un film americano, il protagonista non può essere un maniaco sessuale assassino. Perciò Glenn Ford doveva interpretare il ruolo come Li’l Abner (un personaggio dei fumetti) che torna dalla Corea – un sano americano al cento per cento con comportamenti sessuali molto naturali”.

Ci furono problemi con le location ferroviarie: appena messi al corrente del soggetto del film le compagnie contattate rifiutavano di concedere il permesso per girare, non volevano una cattiva pubblicità! La bestia umana divenne così un noir realistico con un ennesimo triangolo, discostandosi molto dalla storia di Zola. Per questo Lang temeva che in Francia il film sarebbe stato stroncato, invece fu molto apprezzato e Truffaut si produsse in un’accurata analisi dello stile rigoroso del regista viennese.

L. Giribaldi

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di John Meade Falkner

SCENEGGIATURA: Jan Lustig, Margaret Fitts

FOTOGRAFIA: Robert Planck

MUSICHE: Miklos Rosza, Vicente Gomez

PRODUZIONE: John Houseman per Metro-Goldwyn-Mayer

INTERPRETI: Stewart Granger, George Sanders, Joan Greenwood, Jon Whiteley

ORIGINE: USA 1955; DURATA: 87′

Nel 1757, a Moonfleet, sulla selvaggia costa inglese, imperversa una banda di contrabbandieri. In questo posto malfamato il giovane John (Whiteley) è inviato dalla madre che in punto di morte ha scritto una lettera di raccomandazione per Jeremy Fox (Granger), il capo della banda. Il bambino, orfano, “cerca un amico”, ma l’avventuriero, nonostante un antico legame con la madre, non ha nessuna voglia di occuparsene.

Anomalo nella produzione hollywoodiana di Fritz Lang (ma non nel complesso della sua filmografia), Il covo dei contrabbandieri è un film di avventure, “insolitamente romantico”. Tratto da un romanzo dello scrittore britannico Falkner, la storia risente di atmosfere alla Robert Louis Stevenson e anche alla Dickens, come commentò lo stesso Lang.

La risposta del regista austriaco a Peter Bogdanovich se gli era piaciuta la storia spiega come funzionava Hollywood a quei tempi: “Piaciuta? Senta, si firma un contratto. Ripensandoci, probabilmente firmai questo contratto perché dopo Furia per vent’anni ero stato bandito dalla M.G.M. e questo ritorno, in un certo senso, rappresentava una rivincita per me. Quando hai firmato un contratto, devi fare del tuo meglio.”

Il covo dei contrabbandieri è girato inoltre in Cinemascope del quale in seguito Lang dichiarò (nel Disprezzo di Godard) che era buono solo per i funerali e i serpenti: “Ho dovuto farlo. Ed è stata un’esperienza interessante. Ho scoperto quanto è difficile lavorarci. Ma il signor Zanuck era convinto di dover dare una risposta ai film tridimensionali, così era nato il Cinemascope.”

L. Giribaldi

REGIA: Fritz Lang

SOGGETTO: dal romanzo The Bloody Spur di Charles Einstein

SCENEGGIATURA: Casey Robinson

FOTOGRAFIA: Ernest Laszlo

MUSICHE: Herschel Burke Gilbert

PRODUZIONE: Bert E. Friedlob per RKO

INTERPRETI: Dana Andrews, Rhonda Fleming, George Sanders, Ida Lupino, Vincent Price, Thomas Mitchell

ORIGINE: USA 1956; DURATA: 100′

Una ragazza viene uccisa nel suo appartamento da un maniaco che su uno specchio lascia un messaggio scritto con il rossetto. Il patron della Kyne Enterprise convoca i suoi caporedattori perché si buttino sulla notizia per terrorizzare tutte le donne d’America con “l’assassino del rossetto”. Ma poco dopo Mr. Kyne muore e all’interno dell’agenzia si scatena una feroce competizione per la successione.

Penultimo film americano di Lang e secondo capitolo della cosiddetta “newpaper’s trilogy”, Quando la città dorme è uno dei noir più interessanti di tutti gli anni Cinquanta, nel quale il filone realistico-giornalistico si coniuga ad una dura critica dello spietato arrivismo insito nella società americana. In una sceneggiatura di partenza già interessante di Casey Robinson, Lang aggiunse particolari dai suoi famosi ritagli di giornale: “Mi ricordai di quel caso di omicidio realmente accaduto a Chicago, in cui un uomo scriveva sullo specchio: «Per favore prendetemi prima che uccida ancora». Il cast del film è veramente straordinario e ben assortito: Lang riuscì ad organizzarlo dando ad ogni divo una parte che non comportasse più di quattro-cinque giorni di ripresa a testa.

Nonostante Quando la città dorme descriva una società marcia dove il maniaco assassino non è peggiore dei cinici giornalisti che vogliono sfruttare le sue imprese per avanzare nella scala professionale, Lang impose un lieto fine al film: “Di questi tempi, in cui la gente ha paura di tante cose, credo che un lieto fine soddisfi il pubblico più di un finale molto triste.”

L. Giribaldi