Cinema e Letteratura

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REGIA: Rouben Mamoulian

SOGGETTO: dal romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert L. Stevenson

SCENEGGIATURA: Samuel Hoffenstein, Percy Heath

FOTOGRAFIA: Karl Struss

PRODUZIONE: Paramount Pictures

INTERPRETI: Fredrich March, Miriam Hopkins, Rose Hobarth

ORIGINE: USA 1931

DURATA: 98’

Il dottor Henry Jekyll (March) illustra in un consesso scientifico, suscitando scalpore, le sue idee sulla dualità fra bene e male all’interno dello stesso individuo. Diviso fra l’assistenza filantropica ai poveri di Londra e la frequentazione dell’alta società, Jekyll si inoltrerà sempre di più nella ricerca dei limiti delle possibilità umane, sperimentando su se stesso un composto chimico per attuare le sue teorie.

Straordinaria rivisitazione del romanzo di Stevenson, basata sia sulla versione teatrale del 1887, sia sul film del 1920 diretto da Robertson. Oltre alle libertà prese da questi adattamenti rispetto al libro, il film di Mamoulian mette in scena per la prima volta anche il personaggio della cantante Ivy Pierson, interpretato da una sensualissima Miriam Hopkins, introducendo quindi oltre al classico doppio maschile Jekyll/Hyde, anche il doppio femminile fidanzata di Jekyll/amante di Hyde. Il dottor Jekyll del 1931 costituirà quindi il prototipo delle versioni successive, specialmente quella del 1941 prodotta dalla MGM. Geniale l’inizio del film, totalmente inventato da Mamoulian, nel quale l’ingresso di Jekyll è affidato ad una lunga soggettiva, dal momento in cui suona la Toccata e fuga di Bach, al colloquio con il domestico, al viaggio in carrozza fino all’arrivo nella sala dell’Università. Soggettiva brevemente interrotta dal soffermarsi di Jekyll di fronte allo specchio, che lo spettatore può così vedere in faccia per la prima volta. Ma in quel momento, guardandosi allo specchio, Jekyll guarda anche lo spettatore stesso, come a scrutare dentro di sé e dentro di noi la natura insondabile del bene e del male.

L. Giribaldi

REGIA: Luchino Visconti

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di Fedor Dostoevskij

SCENEGGIATURA: Suso Cecchi D’Amico, Luchino Visconti

FOTOGRAFIA: Giuseppe Rotunno

SCENOGRAFIA: Mario Chiari, Mario Garbuglia

COSTUMI: Piero Tosi

MUSICHE: Nino Rota

INTERPRETI: Maria Schell, Marcello Mastroianni, Jean Marais

ORIGINE: Italia 1957

DURATA: 97’

Mario (Mastroianni), un uomo dalla vita anonima, si trova a vagare la notte per la città deserta. Su un ponte incontra Natalia (Schell), una ragazza di origini slave. La ragazza è in lacrime e viene molestata da dei ragazzacci su un motorino. Mario ne prende le difese e la accompagna per un tratto di strada. I due giovani si danno appuntamento alla notte successiva.

Luchino Visconti sposta l’ambientazione pietroburghese di Dostoevskij in una Livorno attuale ma completamente ricostruita in studio a Cinecittà. Ed è straordinario nel film l’apporto degli scenografi, del costumista, del direttore della fotografia. Se già con Bellissima (1951) e Senso (1954), Visconti aveva iniziato a prendere le distanze dal neorealismo, per avvicinarsi al teatro se non addirittura all’amato melodramma, con Le notti bianche questo percorso si compie in maniera netta: “Ho realizzato Le notti bianche perché sono convinto della necessità di battere una strada diversa da quella che il cinema italiano sta oggi percorrendo. Mi è sembrato cioè che il neorealismo fosse diventato una formula trasformata in condanna. Con Le notti bianche ho voluto dimostrare che certi confini erano valicabili, senza per questo rinnegare niente.” Prodotto in modo autonomo dal giovane Franco Cristaldi, dalla sceneggiatrice e collaboratrice di fiducia Suso Cecchi D’Amico e dallo stesso Visconti, il regista milanese fa svolgere il racconto dostoevskiano in un’ambientazione irreale e quasi metafisica, sottolineando l’aspetto di apologo esemplare ed universale della vicenda.

L. Giribaldi

REGIA: François Truffaut

SOGGETTO: dall’omonimo romanzo di Henri-Pierre Roché

SCENEGGIATURA: François Truffaut, Jean Gruault

FOTOGRAFIA: Raoul Coutard

MUSICA: Georges Delerue

INTERPRETI: Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre

ORIGINE: Francia 1962

DURATA: 105’

Nella Parigi della Belle Époque due letterati bohemien, Jim, francese e Jules, tedesco, diventano amici inseparabili. Conoscono Catherine e Jules, imbranato con le donne, si raccomanda a Jim, che invece è un dongiovanni: “Ma lei no, vero Jim?”. Così Jules sposa Catherine. I due amici si separano con lo scoppio della prima guerra mondiale, richiamati sotto le armi su fronti opposti. Si ritrovano alla fine della guerra, insieme a Catherine.

Negli anni Cinquanta, folgorato dal libro di Roché, colpito dalla sua ricerca di una “morale ed estetica nuove”, Truffaut aveva pensato che potesse essere la storia per il suo primo lungometraggio, ma la complessità della produzione lo consigliarono a rinviarne la realizzazione. Dopo I 400 colpi e Tirate sul pianista, Jules e Jim diventò così il suo terzo film, forse il triangolo più famoso della storia del cinema, una storia d’amore che fino a quel momento non si era mai vista,un’utopia sentimentale con tre protagonisti: “Mi piaceva fare un film sovversivo con una dolcezza totale…” Jules e Jim propone in modo scandaloso la possibilità che due amici amino la stessa donna, senza per questo rompere la loro amicizia.

Truffaut racconta la storia con uno stile leggero e profondo «come un’aria mozartiana», dinamico e fedele, pur nell’adattamento, allo stile del romanzo di Roché: “Ho inserito nel film un commento off ogni volta che il testo mi sembrava impossibile da trasformare in dialogo o troppo bello per essere tagliato.” Jules e Jim è la prima delle numerose storie di amour fou raccontate da Truffaut, nel quale l’affascinante, enigmatica Catherine di Jeanne Moreau dispensa seduzione, amore e morte come un’arcana statua dell’antichità.

L. Giribaldi

REGIA: Jean-Luc Godard

SOGGETTO: dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia

SCENEGGIATURA: Jean-Luc Godard

FOTOGRAFIA: Raoul Coutard

MUSICA: Georges Delerue

INTERPRETI: Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Fritz Lang, Jack Palance

PRODUZIONE: Carlo Ponti, Georges de Beauregard

ORIGINE: Francia/Italia 1963 DURATA: 105’

Lo scrittore Paul Javal (Piccoli) è convocato a Cinecittà dal produttore americano Jerry Prokosch (Palance) per riscrivere alcune scene dell’Odissea, film che si sta girando fra Roma e Capri per la regia di Fritz Lang (lo stesso Lang). Il produttore è affascinato da Camille (Bardot), la giovane bellissima moglie dello sceneggiatore.

Il disprezzo è il sesto lungometraggio di Godard, la sua più grossa produzione fino a quel momento, dieci volte il budget di Fino all’ultimo respiro. Godard ribalta l’assunto moraviano, sbilanciando la vicenda in un percorso intimo e intimamente cinematografico, a cominciare dal geniale inizio dove, in un lungo piano-sequenza (il film sarà realizzato con 149 piani-sequenza) composto da un carrello rettilineo, il complice direttore della fotografia Coutard dirige la cinepresa mentre la voce di Godard narra (niente cartelli scritti) i titoli di testa fino a citare il maestro André Bazin. Vertiginosi i rimandi fra cinema e realtà: Piccoli rappresenta lo stesso Godard, mentre la Bardot è Anna Karina e i loro dialoghi sono quelli della crisi Godard-Karina. E Lang è Lang, in lotta perenne con i produttori, ma anche lo stesso Godard, in conflitto con le logiche del cinema commerciale. Difatti il film fu considerato invendibile da Carlo Ponti che lo massacrò togliendo circa 20 minuti, sostituendo i titoli narrati da Godard con banali cartelli, cambiando perfino la musica romantica di Delerue con motivi jazz di Piccioni. Ma B.B. considerò Il disprezzo l’unica opera d’arte della sua carriera.

L. Giribaldi

REGIA: François Truffaut

SOGGETTO: dal romanzo omonimo di Ray Bradbury

SCENEGGIATURA: François Truffaut, Jean-Louis Richard

FOTOGRAFIA: Nicolas Roeg

MUSICA: Bernard Hermann

INTERPRETI: Oskar Werner, Julie Christie

ORIGINE: Regno Unito 1966 – DURATA: 112’

In un futuro distopico dei pompieri nazistoidi non sono più addetti a spengere incendi come nel passato, ma a bruciare i libri (Fahrenheit 451 è la temperatura alla quale brucia la carta), pericolosi oggetti che possono traviare la mente umana. Montag (Werner) fa parte di questi pompieri ed è inquadrato come un automa in una società disumanizzata. L’incontro con Clarisse (Christie), ragazza fuori dagli schemi, lo metterà in crisi.

Truffaut, che da critico non amava la fantascienza, acquistò i diritti di Fahrenheit 451 di Bradbury prima ancora di leggere il libro, basandosi su poche frasi intuite della trama. Dotato di un amore spassionato per i libri, precedente a quello per il cinema, Truffaut non poteva non amare la storia di Fahrenheit 451 e desiderare di farne un film. La cui realizzazione peraltro, anche per gli alti costi, comportò notevoli problemi: solo in Inghilterra Truffaut riuscì a trovare i finanziamenti, così che il film risulta l’unico del regista girato interamente in inglese, lingua che conosceva appena e non riusciva a padroneggiare sul set. Un altro problema furono i rapporti con Oskar Werner, con il quale non si ripetè l’idillio di Jules e Jim. Ma la presenza magnetica di Julie “Lara” Christie in un doppio ruolo (invenzione di sceneggiatura) e soprattutto la passione per i libri ne fanno un film di culto. I libri filmati come personaggi, le copertine, le costole, le pagine: “…in questo film non è possibile lasciare che i libri escano dall’inquadratura. La loro caduta va accompagnata fino al momento in cui toccano terra. I libri qui sono personaggi e interrompere la loro traiettoria equivale a tagliare la testa di un attore in un’inquadratura”, raccontava Truffaut nel suo diario di lavorazione.

L. Giribaldi

REGIA: François Truffaut

SOGGETTO: da Memoire et rapport su Victor de l’Aveyron di J. Itard

SCENEGGIATURA: François Truffaut, Jean Gruault

FOTOGRAFIA: Nestor Almendros

MUSICA: Antonio Vivaldi

INTERPRETI: Jean-Pierre Cargol, François Truffaut

ORIGINE: Francia 1970 DURATA: 83’

Agli inizi del 1800, un ragazzo selvaggio (Cargol), dall’apparente età di dodici anni, viene catturato nei boschi dell’Aveyron, nel sud della Francia. Vissuto come un animale per tutta l’infanzia, isolato dalla società, il ragazzo è incapace di comunicare con gli altri uomini. Suscita curiosità e scherno e viene affidato all’Istituto dei sordomuti. Un medico illuminista, Jean Itard (Truffaut), non è convinto delle diagnosi senza speranza dei colleghi e pazientemente cerca di rieducare il giovane selvaggio alla civiltà, insegnandogli le basi del linguaggio.

Il nono lungometraggio di Truffaut è un film cardine nella sua filmografia ed uno dei più commoventi. Affascinato da sempre dai diari, dalle confessioni intime, la relazione medico-scientifica con riflessioni pedagogiche, umanistiche e filosofiche del medico Jean Itard sul caso di Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, non poteva non interessarlo. È il primo film nel quale Truffaut decide di assumere il ruolo di protagonista e quanto sentisse intimamente la storia lo descrive lui stesso quando, dovendo ancora decidere chi fosse l’attore che avrebbe interpretato il ruolo del dott. Itard, si sentisse “già geloso di quell’intermediario che l’attore sarebbe stato tra me e il ragazzo. Dal giorno in cui ho deciso di interpretare Itard, il film ha acquistato per me una ragion d’essere definitiva.”

Dopo una serie di film a colori, Truffaut torna a girare in bianco e nero come se, dovendo raccontare una storia sull’origine del linguaggio, sentisse di dover tornare anche alle origini del cinema, la sua salvezza, insieme alla letteratura, dalla vita bruta e senza speranza.


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